giovedì 26 giugno 2008

GIOVANNI RAGOZZINO E IL PALPITANTE RAPPORTO CON LA NATURA









di Vitaliano Ranucci

L a presenza di Giovanni Ragozzino nel mondo dell’arte investe un caso non molto comune dal momento che egli con un procedimento a lui molto congeniale ha dedicato alla pittura buona parte della sua vita. Egli ha saputo accostare le doti dell’umiltà, di cui era maestro, a quella della capacità. E’ pittore eclettico sotto molteplici aspetti, dato che non esistono soggetti che non sono stati da lui trattati o che non lo abbiano interessato prima come uomo e poi come artista. A differenza di tanti altri pittori che si accingono ininterrottamente ad impegnarsi in mostre personali ed in presenze in varie città a volte simultaneamente, Giovanni Ragozzino è un’eccezione perché ha una concezione più che seria del fare pittura, vale a dire realizzare un’opera che soddisfi lui e non tenga affatto conto del plauso e del consenso di quel pubblico che frequenta le gallerie più per mondanità che per gusto e piacere dell’arte.
Ecco perché il nostro buon don Giovanni (così soleva farsi chiamare) moltissime volte avrebbe potuto essere all’attenzione di una critica anche esterna alla sua regione, ma ha preferito essere schivo, ha preferito dialogare con le cose, con gli oggetti, con la natura per un più palpitante rapporto ed intimo raccoglimento. 
Si suole pensare che la serietà del lavoro di Ragozzino fosse presa a campione di un modo di intendere e di sfruttare le proprie capacità senza cadere in quelle tentazioni dove l’adulazione, l’insincerità, la superbia snaturano le sempre più scarse doti artistiche dei “creatori” ed il sempre più declinante gusto di quelli che una volta si chiamavano artisti. Molti di noi lo ricordano con quel suo buffo berretto ed il grande papillon fermarsi per dipingere dove capitava o dove si sentiva a suo agio, convogliando sulle tele o sui cartoni soggetti a noi molto cari, nature morte; scene campestri; interni senza nascondere quel suo amore per gli artisti maestri del realismo, dell’impressionismo e dell’espressionismo. Egli è stato artista di grande sensibilità creativa e di assoluta padronanza nella ricerca del colore.  Alla pittura en plein air affiancava capacemente la pittura così detta a cavalletto, affrontando sia il paesaggio, sia la figura, esternando nella ritrattistica una congenita predisposizione. 
Preferiva il contatto, il rapporto con la natura, per scoprire in questo modo alcune sfumature di colore che nello studio a causa di forza maggiore sfuggono e restano in sordina. 
Le sue opere sono costruite tutte secondo un rigoroso rapporto tra le parti al sole e le zone d’ombra, e i contrasti cromatici si risolvono in termini di chiaroscuro, tanto che le “macchie” si possono considerare “macchie-luce” piuttosto che “macchie colore”.
Ripetuti incontri con altri artisti non hanno influito sul suo stile pittorico che anche se finì con il diventare un isolato, lo portarono a creare autentici capolavori nell’arte del ‘900.

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Biografia

In un tardo pomeriggio di fine settembre del 1979, in una grigia saletta di rianimazione  dell’Ospedale Civile di Caserta, si spegneva il pittore Giovanni Ragozzino. Era nato a Sparanise, il 28 agosto del 1902 in una famiglia modesta ma non di disagiate condizioni economiche. Il padre ferroviere, avrebbe voluto farne un professionista, ma il ragazzo cominciò a manifestare precocemente una spiccata vocazione per il disegno. Trascorreva buona parte della  sue giornate a trafficare con matite e pastelli e, spesso quando non aveva a portata di mano la carta da disegno, si divertiva a schizzare paesaggi e ritratti sulle pareti di Palazzo Fedele, casa dove lui abitava.
Queste sue particolari inclinazioni erano guardate in famiglia con una certa perplessità ma, la mamma, si dimostrava invece, entusiasta dei lavori del piccolo Giovanni e lo sosteneva ed incoraggiava in tutti i modi. Arrivato il momento in cui si dovette decidere sul futuro del giovane si tenne un consiglio di famiglia e fu suo zio Paolo, brillante ufficiale dell’esercito, entusiasta sostenitore delle capacità del nipote a consigliarne l’iscrizione all’Accademia delle Belle Arti d Napoli.  A Napoli, oltre a trarre profitto degli appropriati insegnamenti accademici, Giovanni Ragozzino incominciò a frequentare gli ateliers di pittori affermati, come il Guardascione e degli ultimi epigoni dell’Ottocento Napoletano quali i maestri Irolli, Mancino, Migliaro. 
Come pittore era già abbastanza noto nell’ambito di terra di Lavoro, ma gli eventi bellici finirono con il ripercuotersi pesantemente sia nella  sua attività artistica che sulla vita privata.
Poi, finalmente arrivarono per tutti tempi migliori ed anche per il pittore Giovanni Ragozzino cominciò a spianarsi definitivamente la via maestra del successo. Alcune mostre importanti, allestite in varie città italiane ( Trieste, Napoli, Roma ecc.) fecero molto scalpore  negli ambienti artistici; molti critici di rilievo cominciarono, ad interessarsi alla sua pittura ed a scrivere in termini assai lusinghieri. Tra gli altri, significativamente, il francese Charles Millet affermaca….voilà un peintre de tempérament, d’un touche vigoreuse, d’un belle palette et qui sait aimer la lumierè et composer sans rien ritirer a la nature… c’est la peinture taillée en pleine matiére, genreuse et sensible o§ l’impressionisme et l’expressionisme s’accordent avec boneheur dans le naturalsme, tout cela exprimé sans  littérature inutile…
In seguito tutto divenne più facile. La sua fama si allargò e consolidò  in corrispondenza  ad una attività artistica instancabile e sempre di alto livello. 
Probabilmente,il quarto di secolo successivo agli anni ’50 è da considerarsi il periodo più fecondo del suo itinerario artistico, il tempo delle grandi mostre, il tempo delle sue creazioni più felici. Memorabili le sue personali allestite a Roma a via Margutta, a Napoli in via dei Mille, al Maschio Angioino, al Circolo Nautico di Posillipo, ed ancora a Trieste, a Milano a Caserta. Piaceva molto la sua pittura, imponente e solare, quel cromatismo superbo con cui con cui orchestrava le sue rappresentazioni paesistiche. Aveva, infatti, una particolare sensibilità per questi motivi d’ambiente che rendeva in modo impareggiabile attraverso una tecnica concisa, serrata, che non indulgeva al dettaglio  e che pure trovava  la grazia e l’agilità necessaria per concedere ampio respiro alla trama figurativa.Con pochi tratti di una pennellata fluida e nervosa, riusciva, a caratterizzare perfettamente un personaggio, ad evidenziare umori e radici antiche, a tirarne fuori quell’essenza sorniona e beffarda, fatalistica e distaccata che ci sembra costituire l’anima più autentica del popolo. La sua pittura fu, innanzitutto, espressione sincera del suo carattere pudico ed orgoglioso, semplice e schietto, ma, a ben guardare, fu anche, o forse soprattutto, la testimonianza appassionata di un viscerale attaccamento al suo Paese natale ed alla sua Gente; un lungo, tenero canto d’amore per questo generoso lembo di terra Calena, sciolto nel sole di rustici casolari di campagna, fra gli uliveti verdeggianti ed i luminosi sentieri di collina.

VILLE IMMERSE NEL VERDE ('800 Napoletano)


di Lello Santamaria

Nell’Ottocento Napoli era una città molto importante. Tra le preziose eredità di quel periodo, anche due rifulgenti dimore circondate da altrettanti splendidi parchi: le ville Pignatelli e Floridiana. Queste ville erano e sono talmente belle da essere diventate musei. Nel periodo a cavallo tra il XXVIII e il XIX secolo, La zona di Chiaia era la “zona bene” di Napoli, quella dove l’aristocrazia e l’alta borghesia costruivano le loro lussuose residenze. Villa Pignatelli è una tra le più belle ed è ancor più degna di nota perché è una delle poche che hanno mantenuto il parco – giardino sul mare. La moda dell’epoca esigeva rigorosamente l’architettura neoclassica. Pietro Valente, l’architetto che ricevette l’incarico nel 1826 da Ferdinando Acton, ministro del re Ferdinando IV, si attenne solo in parte a queste indicazioni, modificando continuamente il progetto. L’aspetto attuale riecheggia la villa pompeiana con l’atrio esterno del doppio porticato con colonne. Il tutto circondato dal giardino (quest’ultimo, però, in stile romantico) con i suoi sentieri tortuosi che portano al mare e tagliano aiuole dai contorni non ben definiti. Al centro, una semplicissima fontana di fronte alla facciata. La villa passò di mano più volte. Gli ultimi acquirenti, i principi Aragona Pignatelli Cortes, la donarono allo Stato italiano nel 1952. Oggi è un museo, con le decorazioni originali in stile “II Impero” e con una raccolta d’opere d’artisti napoletani tra il XVI e il XX secolo. Nel giardino c’è anche una collezione di carrozze. Spostandoci invece, sulla collina vomerese troviamo La splendida Villa Floridiana che deve il suo nome a Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, seconda moglie di re Ferdinando IV di Borbone. Tornato nel 1816 dall’esilio, il re incaricò l’architetto toscano Antonio Niccolini di sistemare la struttura originaria della villa sulla collina del Vomero. Ne uscì un assetto equilibrato, arricchito sul retro, di una spettacolare fuga con la scalinata marmorea che finisce in un belvedere affacciato sulla città, sul Golfo e con Capri sullo sfondo. Anche il parco all’inglese è un capolavoro. 
La villa, ospita il Museo di Arti Decorative Duca di Martina con la collezione d’oggetti d’arte applicata raccolta dal Duca di Martina Placido de Sangro e lasciata in eredità al nipote che alla sua morte nel 1911 volle donare l’intero “ museo di famiglia” ala città di Napoli. Spiccano le raccolte di porcellane, in particolare di tre grandi manifatture, quella sassone di Meissen, ma anche quella francese di Limoges, Sèvres e quelle orientali. 
Naturalmente non possono mancare le famosissime porcellane di Capodimonte e quelle antiche di Deruta, Gubbio e Faenza. Completano la ricchissima ed eterogenea collezione vetri, mobili, avori, tabacchiere, coralli ed altri oggetti.

LA FINESTRELLA PIU' FAMOSA DEL MONDO


di Ariel Marino

“A Marechiaro ce sta na fenesta:la passiona mia ce tuzzuléa...Nu garofano addora 'int'a na testa,passa ll'acqua pe' sotto e murmuléa”. Chissà quanto hanno contribuito queste note appassionate a rendere famosa nel mondo la finestrella, sicuramente hanno creato attorno a questi luoghi un meritato alone di leggenda. Marechiaro, Mergellina e Santa Lucia: tre angoli della Napoli “di mare, tanto nascosti quanto ricercati e caratteristici. Piccoli e deliziosi approdi naturali ai piedi della collina di Posillipo. Tutti da scoprire. Anche chi non c’è mai stato, sa perfettamente cos’è Marechiaro e ne conosce l’ incantesimo. È un “posto”, come dicono i partenopei, dove l’acqua si è preso lo sfizio di agitarsi, di rovesciarsi sugli scogli affioranti sulla sabbia nera del Vesuvio. Così, il semplice scialacquio si è trasformato in armonia. Come un suono d’orchestra. Marechiaro ha partorito l’omonima canzone sui versi di Salvatore Di Giacomo. “ Quando spunta la luna a Marechiaro, anche li pisci fanno l’ammore….”. si scende per gradini che sembrano finire nell’acqua e ti viene subito voglia di cantare di ripetere il celebre ritornello, la melodia struggente, ma anche tentatrice di quei versi. Qui si viene per amoreggiare, per chiarirsi dopo un litigio. Per dirsi addio o per scongiurare una separazione. Per rubare qualche minuto d’allegria al grigiore del lavoro. o alla monotonia della vita Non a caso Marechiaro è l’unico posto di Napoli dove davvero il mare lo puoi toccare. Ci puoi mettere i piedi dentro. Lo puoi annusare. Te lo puoi portare a casa. Marechiaro ha deciso di sposarsi con il Golfo, con i suoi colori, e il panorama. Si ammirano Capri e la costiera sorrentina. C’è il silenzio e c’è il mare. Non ci sono panchine, non ci si può sedere. Le barche dei pescatori, i vecchi gozzi sorrentini, non escono più con le reti. Servono a traghettare bagnanti e turisti attratti dai ristoranti, qualcuno scavato dentro la montagna. Si mangia bene a Marechiaro. D’estate con le tavole imbandite anche all’aperto, a strapiombo, i commensali ricevono il corteggiamento dei “posteggiatori” gli ultimi menestrelli partenopei che intonano con chitarra e mandolino. Marechiaro è un “monumento della natura” che ha tradotto la poesia e la musica napoletana in colori, odori e sapori. Per arrivarci dal centro bisogna inerpicarsi lungo Via Posillipo gioendo di vedute mozzafiato. La brezza marina fa giungere l’odore dei pini. Poco dopo Piazza Salvatore Di Giacomo si scende a precipizio per Via Marechiaro. A fare da sentinella, il campanile della chiesa di Santa Maria del Faro. Pochi metri e si prosegue solo a piedi. I gradini sono malmessi, poco illuminati. Ma l’emozione fa perdonare tutto. Si arriva quasi a pelo d’acqua per Calata del Ponticello a Marechiaro. Superato l’arco, appare finalmente “a finestrella”‘e Marechiaro “a finestrella” della canzone . sul davanzale, senza pretese e poco curato, un vaso con tre garofani rossi, sempre freschi di giornata. Sotto, sul muro scalcinato, un medaglione con il pentagramma, le note, la frase, le firme degli autori della canzone. La Finestrella guarda ad Occidente. E’ rivolta al tramonto e aspetta che spunti la luna, come prega il poeta. Qui i gatti sono ospiti fissi. E forse i più fortunati. Dal porto di Mergellina si parte per le isole del Golfo solo con aliscafi e battelli veloci. Dagli imbarcaderi si sognano vacanze da ricchi sui lussuosi Yacht. Ce ne sono ormeggiati a centinaia, in tutte le stagioni e per tutti i gusti. Coprono a mantello lo stretto specchio d’acqua. Resta il mistero su tanti numerosi proprietari. Il mare da qui è nascosto, non sfavilla. Lo sguardo, superate le prue, sbirciando tra gli alberi delle vele, corre all’orizzonte se l’aria è tersa, dietro la montagna di barche spunta la fortezza di Castel dell’Ovo, sovrastata dal cono del Vesuvio. L’acquarello di Mergellina. È qui che si passeggia la domenica e di sera. Sul lungomare si rinnovano riti e tradizioni, familiari e culinarie. Mergellina è un’altra delle tante e diverse città dentro la stessa Napoli. Un po’ rione, un po’ borgo marinaro, un po’ quartiere d’elite. Insomma di tutto un po’. Ritrovo per amanti del mare e per turisti a caccia di souvenir e buoni piatti da gustare. Mergellina parte sotto la collina di Posillipo e prosegue verso i grandi alberghi, lungo Via Caracciolo. C’è la stazione ferroviaria per treni rapidi, la metropolitana e la funicolare che porta al Vomero. I palazzi sono curati, i prezzi da capogiro. La grande strada litoranea separa i visitatori, per tasche e per gusti. Sul lato mare le bancarelle rimediate, con teli di plastica antivento : acquafrescati , paninari, venditori di taralli sugna - pepe - mandorle. Roba per turisti fai da te, studenti e famiglie numerose. Sul lato monte ci si può accomodare ai tavolini per le sfogliatelle e i babà. Gennaro da 53 anni vive e lavora sul largo marciapiede di Mergellina, di fronte a Palazzo Minozzi. Per tutti è “l’Ostricaro di Mergellina”. Vende frutti di mare ai napoletani nei giorni di festa, ai forestieri i souvenir: conchiglie con la scritta Napoli, piatti di ceramica con panorama. Pulcinella, Madonne incastonate nella madreperla. San Pio benedicente. Gennaro è devoto del santo e di Mergellina “è tutta la mia vita”. La sua è una bancarella da cartolina. A Mergellina si trovano di nuovo le cozze nostrane di Santa Lucia, ora che il mare è tornato pulito ci si ferma più volentieri Il giovedì santo si viene apposta qui per la zuppa di cozze: biscotto, lumache, polpo e olio rosso al peperoncino.” Una icastica descrizione di Marechiaro ci viene data da questi deliziosi versi di una canzone napoletana scritta nel lontano 1962 “E' na musica stu mare ca nisciunu professore 'ncopp''a carta pò stampá! Nu cuncierto senza fine ca si duje se vònno bene,nun se pònno cchiù scurdá!”. La canzone è Marechiaro Marechiaro ed era cantata dall’indimenticabile Roberto Murolo.